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giovedì 7 febbraio 2013

Con Ferdinando di Arturo Cirillo tra Angeli e Diavoli

da " Il quotidiano della Basilicata"

Con Ferdinando di Arturo Cirillo tra Angeli e Diavoli 


di Francesco Altavista 



Matera –  Il “ Ferdinando “ , in scena al teatro “ Duni” sabato scorso  nell’ambito della rassegna “ Teatri uniti – Napoli a Matera”,  scritto da Annibale Ruccello e riadattato dal genio e follia di Arturo Cirillo  che ne cura anche la regia,  sguazza nelle contraddizioni con violenza pura,  si aggira tra depravazioni e sentimenti nello stesso tempo profondi e deviati  con straordinaria fierezza e conoscenza, accoglie, coccola e deride i suoi personaggi con arguzia e con eleganza ne disegna il volto nella testa del pubblico per poi come fa un pennello intriso d’acqua portato questa volta con sussurrata delicatezza  su un disegno, confonde tutto nell'indefinibilità lirica.   Arturo Cirillo è anche in scena nella parte  di Don Catello, un prete viscoso e vizioso   che sembra esser uscito fuori dagli scritti del marchese De Sade. 




Se da una parte è vero che il prelato mette in luce enormi contraddizioni  nel suo rapporto con Dio  e con il peccato, Cirillo i mostra un uomo succube della sua stessa vita, della sua stessa velata cattiveria ma anche delle empie, nei suoi confronti, decisioni degli altri. Don Catello come gli altri personaggi è in bilico su un ponte con sotto il  dirupo dove ci sono le considerazioni facili, ad un certo punto il pubblico quasi spera che possa cadere per farsene un’idea precisa, ma non succede.  Due ore  ininterrotte  di teatro, senza pause  e cali di tensione, il pubblico poco, a dir la verità, al teatro” Duni “, è attento  concentrato su ognuno delle maschere che il testo di Ruccello ha scritto e che Arturo Cirillo  fa muovere sul palco con  precisione, mostrando in questi movimenti il passare del tempo con magie di regia.  La storia è ambientata  dopo una grande rivoluzione di costumi, dove la classe dominante deve cedere il posto ad una nuova classe borghese che approfittando dell’”Unità d’Italia” vuole appropriarsi del prestigio e del potere. Questo una consapevolezza che la pièce lascia in modo distratto, tra le vicissitudini dei personaggi , ma che con fascino, certamente  evidenzia anche un valore politico – sociale dei simboli mostrati.  Una  incredibile e vulcanica  Sabrina Scuccimarra   interpreta Donna Clotilde la parte che Annibale Ruccello scrisse per Isa Danieli, lei il perno della storia, lei rappresenta il tempo che non è più, la sconfitta  che va a legarsi all’onore della famiglia ma che rovina nel tranello di Ferdinando interpretato da un bravo Nino Bruno. 



La sessualità repressa, la carne in fiore di un giovane  disegna quasi ” pasolinianamente” terribili cognizioni. Donna Clotilde rovina come il regno dei Borboni ed è incapace di reagire quando tutto si svela, si sazia del giovane in un sentimento che non essendo totale e pieno risulta per forza falso. In dialoghi che nella stessa frase fanno ridere il pubblico per poi bloccarlo di botto quasi scandalizzato o strattonato dalla violenza di alcune metafore, però la gelosia, l’amore, l’orgoglio e anche l’odio si costruiscono da sé e poi allo stesso modo si trasformano continuamente. Geniale nel testo il contrasto tra l’italiano dei “ Savoia”e il napoletano dei Borboni  non tanto per il valore storico, ma proprio per caratterizzare i personaggi  Nel modo aristocratico, impellicciato di parlare di Ferdinando nasce da subito una stana contraddizione in una casa in rovina. Il tutto si muove in una scenografia intelligente di Dario Gessati, sembra formata da un largo e grande tappeto che sale verticalmente alle spalle degli attori. In scena il letto di Donna Clotilde, un divano, un mobile  e un candelabro a terra che sale quando sembra che il giovane Ferdinando abbia portato la gioia e l’allegria in casa. Donna Gesualda interpretata da un’impeccabile Monica Piseddu, è il pesonaggio più interessante.  Vive una storia carnale e di peccato con Don Catello,  accudisce nonostante le vessazioni la cugina Donna Clotilde,  cuce le ali e il costume per Ferdinando per una recita nei panni dell’arcangelo. E’ lei il fulcro di tutte le contraddizioni, sembra essere lei a tessere le trame della storia. E lei che viene tradita da Don Catello per Ferdinando, verso il prete un sentimento bello ma incompleto  e viziato da blasfemia. Lei si accorderà alla fine con Donna Clotilde per uccidere il prelato, lei mostrerà la falsità di quest’ultima come donna che non è mai stata fedele al marito, addirittura ladra. Sempre lei mostra al pubblico un confine netto tra l’amore  e la carne, verso Ferdinando è solo passione, voglia spudorata del corpo del giovane, un confine netto che svela la grande contraddizione del prete, innamorato del peccato che usa come arma verso il Dio che normalmente dovrebbe onorare.  In qualche modo svela anche l’inganno di Ferdinando in realtà figlio del notaio voglioso di potere e di ricchezze  e non parente di Donna Clotilde, si svela alla fine con un ricatto per avere le ricchezze nascoste e tutto questo lo fa con indosso gli abiti di un angelo cucini proprio da donna Gesualda. Ma sono così simili gli angeli del paradiso e quelli dell’inferno che ad un certo punto sembra evidente la straordinaria capacità di Monica Piseddu nei panni di Donna Gesualda di cambiare faccia ma di restare un angelo comunque,anche  quando tutto sembra tornare alle condizioni di partenza nonostante si sia macchiata di un omicidio verso l’uomo che amava. Una pièce bella, tutta da godere anche parlandone con gli amici tornando a casa, tante le trame, tante le contraddizioni mostrate da attori straordinaria, una su tutte Monica Piseddu che nella sua recitazione è stata capace di trasformarsi, di strattonare quel poco di certezza e ragionamento nel pubblico, capace di dare corpo a dei sentimenti umani che sono sembrati, tristemente per un romantico,  carnali senza perdere però la poesia del testo che non  stato blasfemo perché  se pur formato da metafore e parole violente, non ha parlato di esseri celesti e di Dio ma di uomini.

Una domenica Notte tutta da gustare

da "Il quotidiano della Basilicata"

Una domenica notte tutta da gustare 


di Francesco Altavista 

EH bravo Giuseppe Marco Albano! Finalmente un film girato, ideato e prodotto in Basilicata che non sia il dozzinale ammirare una terra polverosa e maledetta. E sì, “ Una domenica notte” è bello anche perché della Basilicata non si parla, la terra lucana in qualche modo c'è ma non si vede. L'unico riferimento evidente e netto che si tratta proprio della Lucania, lo fornisce la prima pagina del Quotidiano della Basilicata, in primo piano, mentre il protagonista, seduto ai tavolini davanti ad un bar, legge del successo del giovane regista figlio del sindaco. L'impresa titanica dei produttori coraggiosi Angelo Viggiano e Paolo Mariano Leone di realizzare un film totalmente indipendente anche nella distribuzione, aldilà dei gusti è l'esempio di una cosa ben fatta, di un film vero. E' una commedia che si beve come un the esacerbato dal troppo limone, ma che comunque scende in gola liscio e senza intoppi a lunghi sorsi. 




La colonna sonora di Populous, giovane salentino e in parte di Brunori sas, cantautore calabrese che con un suo pezzo dà il nome al film sono eccezionali. La regia appassiona, sa dove essere presente agli occhi di chi assiste e dove invece nascondersi dietro le terribili consapevolezze dei personaggi: alcuni movimenti di macchina sono unici e per palati fini. E poi in un cast d'eccezione che vede tra le fila anche il grandissimo Ernesto Mahieux nella parte del ricco e vizioso conte Paolicelli, c'è una splendida Claudia Zanella nella parte di Maria l'ex moglie del protagonista: solo il primo piano del suo viso etereo e dei suoi occhi luminosi come il riflesso della luna piena tra le onde del Mediterraneo in una sera d'estate, vale almeno cento volte il costo del biglietto. 





La recitazione della Zanella affascina terribilmente da subito senza nemmeno vedere il suo sorriso commovente e sconfinato, quasi teatrale rappresenta un film a sé, di fatti è lei che darà nel dialogo finale con l'ex marito Antonio Colucci, protagonista della pellicola interpretato da Antonio Andrisani, una lettura devastante alla storia: un regista simbolo dei sognatori che sono gli unici a restare fermi mentre intorno il mondo cambia. Come se i sognatori come Antonio, ormai ultraquarantenne, regista fallito che vuole fare un film horror e intanto lavora per piccoli e mediocri spot per attività commerciali di una provincia sperduta, fosse l'unico a non accorgersi della sua maledizione nel vivere ad una velocità totalmente diversa dal mondo che lo circonda. Per gli intenditori o i pignoli forse l'unico difetto, ma è anche una interessante scelta nella sceneggiatura, può essere il fatto che il protagonista praticamente è sempre presente e troppe scene sono girate all'interno, ma nemmeno questo stanca più di tanto grazie alla straordinaria capacità di Antonio Andrisani di passare da fasi quasi grottesche a parti drammatiche, solo con un movimento d'occhi e di sguardi. L'attore materano - che è anche l'ideatore del soggetto e di parte della sceneggiatura- in qualche modo si carica la pellicola sulle spalle e riesce a portarla a termine con ottimi risultati. 



Il sogno cinematografico di Antonio Colucci incontra nel suo percorso della ricerca fondi per il suo film diverse storie che vagano come anime in pena: un matrimonio fallito con tanto di figlio trattato come un pacco postale, c'è un nuovo rapporto amoroso forse falso e comunque non appassionato del protagonista con la sorella dell'ex moglie, con Francesca interpretata dalla brava e bella Francesca Faiella che praticamente si rattrista per la scomparsa della propria gatta ma quasi come in una storia pirandelliana ha un rapporto con la sorella ridotto a brandelli tra gelosie ed invidie. Non si salva nemmeno l'amicizia del protagonista sia con Giovanni (Alfio Sorbello) ridotto alla disperazione per non poter pagare l'affitto e consapevole della disgregazione del sogno di girare un film; sia con Augusto ( Adolfo Margiotta) separato e pronto a pagare l'amico, nella sua strana follia, per far uccidere la moglie. Il tutto trattato nella maniera di una commedia amara. Antonio non accetta i compromessi per realizzare il suo film, litiga perfino con un bambino perché anche nelle cose piccole, le uniche che riesce a fare, non vuole essere mediocre. Non accetta di tradire la sorella Carla interpretata da Anna Ferruzzo a favore del fedifrago e ricco cognato Vito (Pascal Zullino). In mezzo a queste storie, in una regia che così diventa ancora di più unica ed originale, alcuni provini che intuitivamente dal pubblico vengono attribuiti ad Antonio che cerca il cast per il suo film horror (alla fine non si capisce se riuscirà davvero a realizzarlo) con strani e divertentissimi personaggi quasi spiriti, una scelta che rompe la linea temporale e che fa nascere interessanti discussioni nella cena post-proiezione. Il film parte proprio con uno di questi strani casting, sulla scena c'è uno strano e grottesco personaggio, ai cittadini di Brienza si stringerà il cuore, quella strana maschera divertente è una sorta di simbolo della città situata nella valle del Melandro dove parte della pellicola è stata girata, purtroppo scomparso per malattia qualche mese fa, non si può che essere contenti che Raffaele per gli amici “u' libanese” in tutta la sua simpatica essenza di cantastorie stralunato apra un ottimo film che merita davvero di essere apprezzato. Il positivo accoglimento alle prime affollatissime di Potenza e di Matera è sicuramente un buon inizio.

Tra i Fantasmi di Enzo Vetrano, intervista

da " Il quotidiano della Basilicata"

Tra i fantasmi di Enzo Vetrano 




di Francesco Altavista 




Potenza – Il consorzio “ Teatri uniti “ di Basilicata formato da “ Cose di tetro e musica” di Dino Quaratino   e  dall’associazione “ Incompagnia”  di Francesca Lisbona con i suggerimenti di Antonio Calbi,   questa sera  a partire dalle 21:00 al “ Teatro Don Bosco ”  di Potenza e domani al tetro “ Duni “ di Matera alla stessa ora,  presenta  al pubblico quello che è probabilmente il  più grande teatro pirandelliano d’Italia, quello della coppia Enzo Vetrano e Stefano Randisi con lo spettacolo “ Fantasmi” ( già due anni fa in Basilicata per la rassegna “Le valli del teatro”) che vede anche la partecipazione di Margherita Smedile.La rassegna di Potenza e di Matera si pregia di un nuovo appuntamento di  imperdibile e grande teatro. Di Pirandello e dello spettacolo “ Fantasmi” ne parliamo in anteprima per “ Il quotidiano della Basilicata” in un’intervista  al grandissimo Enzo Vetrano.  
Maestro “ Fantasmi” torna in Basilicata. Come si potrebbe presentare uno spettacolo abbastanza complesso anche nella sua struttura ?
« In questo spettacolo abbiamo  affrontato dei  monologhi che sono all’interno di questo trittico che si chiama “ Fantasmi”. Il più noto è “ L’uomo dal fiore in bocca”, un testo talmente straordinario che da anni pensavamo di farlo. L’abbiamo unito ad altri due  monologhi: uno   al femminile che si chiama “ Sgombero”  e un altro “ Colloquio con i personaggi”  entrambi tratti da “ Novelle per un anno”. Quando è nato questo spettacolo avevamo però l’esigenza di inserire un brano che parlasse della fine della vita in maniera leggera come se fosse vita stessa. Abbiamo trovato due personaggi straordinari di un autore contemporaneo sempre siciliano che si chiama Franco Scaldati e questi personaggi si chiamano “ Totò e Vicé”. In questa scenografia che  è un binario abbandonato, camminano   e parlano anche loro della vita e della morte ma con una leggerezza tale da sembrare bambini. Sono personaggi carichi di grande poesia. “ Fantasmi” sono tanti pezzi che si sono composti insieme in un  unico spettacolo, sono appunto i fantasmi di Pirandello.»





I fantasmi sono esseri che non appartengono alla vita e neanche alla morte, sono in una terribile condizione di mezzo ma immortali. Perché Pirandello è immortale e di quali fantasmi parlate al pubblico?
« Facciamo riferimento ai fantasmi della vita stessa. Siamo circondati da storia, da presenza, da letteratura , da cultura; basta afferrare questi fantasmi che per anni ci girano attorno. In un momento di crisi della società così forte bisogna tornare a questi classici del passato. Ci parlano della vita in una maniera così profonda a cui non siamo più abituati. La nostra società adesso vive solo attraverso le comunicazioni veloci, bisognerebbe tornare all’essenza della parola, sarebbe una cosa per noi tutti molto  importante. I classici non hanno tempo perché parlano dell’uomo. I grandi autori scavano talmente forte che proprio non c’è da pensare all’attualità, perché c’è sempre. Viviamo in un mondo di fantasmi.»
Con i clochard “Totò e Vicè” portate la leggerezza, ma possono essere intesi come una sorta di lieto fine alle conclusioni sospese delle opere pirandelliane?
«Esatto. Il loro percorso è questo viaggio e  alla fine giocano. Forse la conclusione più bella la danno loro che giocando si trasformano poi in uccelli e  in angeli. Loro giocano come dei bambini e quindi più che una conclusione consegnano  una speranza. Attraverso il gioco e la poesia si può cambiare il mondo. Questi due personaggi ci stanno accompagnando tanto, tra l’altro da questo spettacolo è nato uno spettacolo intero, cioè tutto il testo di Franco Scaldati.»




In questo spettacolo forse la parte più violenta ed aggressiva è il monologo di “ Sgombero” della brava Margherita Smedile. Che donna mostra Pirandello?
«Questo monologo era stato composto per Marta Abba, la donna di Pirandello.  E’ un monologo molto violento. E’ un discorso  crudo nei confronti del padre, parla  delle violenze subite, dell’abbandono sulla strada e  a quei tempi a Marta Abba   parse troppo violento e non l’ha mai messo in scena. E’ una donna siciliana, molto forte a cui noi siciliani e noi del sud siamo abituati. Una donna avvezza ad una condizione difficile: la vita al sud è più dura sia da un punto di vista strettamente economico ma anche come discorso sulla parità tra i sessi. Questa figura di donna che traccia Pirandello è veramente una figura di ribellione ed è di una modernità assoluta. A quei tempi una donna non poteva reagire così, anche alla violenza. Pirandello la fa diventare un’eroina.»
Quando lo spettatore entra in teatro, lei è in platea con i panni dell’”uomo dal fiore in bocca”. L’attore si confronta direttamente con il pubblico e viceversa, l’opera è come se si muovesse con e tra il pubblico. L’attore pirandelliano  in questa ricerca di verità scenica riesce a fine spettacolo a liberarsi dal personaggio?
« Il personaggio è  una vita che si vive in tutta la sua profondità. E’ bello immergersi totalmente in questo fantasma, di dimenticare un po’ di essere Enzo Vetrano, anche se non puoi farlo totalmente. E’ bellissimo. Il cervello sa che è finto se no morirei  d’infarto ad  ogni replica.  Però un po’ te lo devi dimenticare. Anche Pirandello dava questa indicazione, quella  di rompere - ed è modernissimo ancora - questa barriera tra palcoscenico e spettatore, mischiare  come se in ognuno ci potesse essere “ L’uomo dal fiore in bocca”.»



Una particolarità incredibile è la grande amicizia che lega lei  a  Stefano Randisi, più di trent’anni insieme. Come vive  un legame così forte? Vi sentite un po’ come i vostri personaggi “ Totò e Vicè”?  
«Certo non è tanto comune un legame del genere nel nostro mondo. Abbiamo iniziato insieme questa avventura. Questo binomio è diventato assoluto. Abbiamo la stessa idea di teatro, la stessa vocazione e la stessa meta. Fare una regia in due è come se a farla ,  fosse un’unica persona con due facce. Siamo anche profondamente diversi io e Stefano. Io  sono più folle, lui più razionale. Le sue idee con le mie danno la possibilità di uno spettacolo folle che si riesce a capire. Tutti e due amiamo lo stesso tipo di poesia,  ecco perché dura anche il nostro lavoro insieme. E’ una grande storia di creazione insieme. Nel dialogo tra “ Totò e Vicè”  c’è un po’ anche la nostra storia di amicizia molto forte che è sicuramente un altro tema di questo spettacolo.»
Maestro, avete collaborato con la compagnia “ Le Belle Bandiere” di Elena Bucci  e Marco Sgrosso ( il  primo febbraio in scena  allo “Stabile” e il 7 al Duni) in passato ed avete fatto cose indimenticabili. Collaborerete ancora insieme? Quali  sono i vostri prossimi progetti?
Con “ Le belle bandiere” per ora non è previsto niente, stiamo facendo dei percorsi diversi e paralleli. Per ora progetti separati. Abbiamo un progetto di tornare a Goldoni che ebbe un grande successo e sono anni che lavoriamo al “ Tartufo”  ma in questi ultimi anni troviamo difficoltà a livello produttivo, perché per quanto abbiano grande successo, le risorse tendono a diminuire. Per quanto riguarda noi : abbiamo realizzato  diversi frammenti di Pirandello per un  documentario della Rai da mandare in tv.  C’è “ Fantasmi”, “ Totò e Vicè” ma anche altri personaggi di Pirandello, l’abbiamo consegnato venti giorni fa. Il documentario si chiama “ Per mosse d’anima”,richiamando proprio la ricerca della verità scenica che Pirandello voleva dai suoi attori. Ci sono poi  nuovi spettacoli in programma e vorremo fare un lavoro su Sciascia che pochi conoscono come autore ma è straordinario.»
Cosa è la Bellezza?
«La Bellezza è qualche cosa che fa vibrare in maniera forte, un qualcosa che incanta.»







Grisù, commedia gustosa di Clementi

da " Il quotidiano della Basilicata"

Grisù di Clementi, una commedia " gustosa"



di Francesco Altavista 



Satriano di Lucania – Alla fine dello spettacolo si va tutti di corsa a degustare prodotti tipici nel Castello Guarini di Satriano di Lucania, con gli attori che fino a pochi minuti prima avevano saziato tutti a suon di risate per circa due ore. E’ la nuova idea degli organizzatori della rassegna “ Le valli del teatro”, Domenico De Rosa e Rocco Positino: unire il teatro alla promozione dei prodotti tipici, uno strano ma interessantissimo intreccio tra l’arte e i sapori del Melandro.  E quindi  Paolo Triestino, Nicola Pistoia, Franca Abategiovanni, Sandra Caruso e Diego Guenci  appena scesi dal palcoscenico del teatro “ Anzani” di Satriano di Lucania e smessi i vestiti di scena della splendida commedia del genio  Gianni Clementi ”, Grisù, Giuseppe e Maria” ,  domenica scorsa si sono ritrovati nella “Rocca Duca Poggiardo” insieme a tutto il pubblico che poco prima si era trascinato in un lunghissimo applauso,  a gustare latticini e salumi tipici seguiti dall'immancabile buon bicchiere di vino che da queste parti si può accompagnare anche solo ad una chiacchiera, in questo caso, con gli attori. Certo la stanza del buffet probabilmente  rinvigorita da qualche “intruso”  ha appassionato più persone ma il teatro “Anzani” al primo spettacolo della rassegna 2013  “ Le valli del teatro”  fa registrare quasi il tutto esaurito, segno di una amore per la coppia Triestino – Pistoia  ma anche un gesto d’affetto profondo verso gli organizzatori della rassegna, De Rosa e Positino.  Gianni Clementi per portare il pubblico in una intricatissima storia, tipicamente napoletana  usa l’espediente del flashback affidato a Donna  Rosa interpretata da una bravissima Franca Abategiovanni  che appare  in platea  davanti ad un altarino  corredato da un’immagine della “ madonna”.  Tutta la pièce, sotto un’energica, veloce  e moderna regia di Nicola Pistoia,  è un omaggio al teatro napoletano, non solo nella lingua che con straordinaria maestria viene fatta fluttuare nella storia da attori non napoletani, ma anche  nei modi, nelle strutture, nelle sceneggiate   e perfino nell'intreccio che ricorda molto nel  sapore le speculazioni   “scaperttiane”. 



Anche nelle caratterizzazioni dei personaggi Clementi si rifà alla commedia napoletana  di   Scarpetta, specie nei personaggi femminili  dove è evidente qualche vena del maschilismo che caratterizzava quelle opere partenopee: le donne  non sono protagoniste che superano gli argini imposti ma vittime che stanno al loro posto.  E’ una pièce comunque che ,  come al solito quando si assiste alla magia della penna di Gianni Clementi, non bisogna leggere superficialmente affidandosi solo  alle continue maschere esilaranti corredate da battute, ma scavare nelle personalità dei personaggi  e nella straordinaria lirica dei dialoghi. E’ un esercizio che il pubblico deve fare per dedicarsi corpo e anima ad una scrittura entusiasmante oltre che a capacità interpretative uniche da parte di tutti gli attori in scena.  Paolo Triestino è il perno di tutta la storia: è il prete, Don Ciro intorno al quale si legano tutte le storie dei personaggi,  tutte dalla doppia faccia. Una con il sorriso e la speranza propria degli anni 50 periodo in cui è ambientata la pièce e l’altra terribile, oscura, ombrosa  e più nascosta che evidenzia le storture del dopoguerra e  fornisce alcune delle parole che tratteggiano  la modernità. Così  questo strano prete che è simbolo della pièce,  da una parte appassiona il pubblico  e ricorda un po’ l’eroe che vuole portare Pozzuoli verso l’emancipazione, l’amico del popolo, pronto a tendere la mano, pronto a dare insegnamenti ma a non essere severissimo sui dogmi della chiesa ma comprensivo e disponibile nel leggere le lettere ai suoi fedeli analfabeti:  dall’altra parte il prelato diventa anche il custode aggressivo  di un tempo ormai frantumato come i valori della famiglia e le vite dei miserabili,questi ultimi indirizzati a votare il consigliere comunale che fa i favori. 
E’ Don Ciro che decide di costruire una truffa per salvare due donne sole dallo scandalo. Sullo sfondo la tragedia di “ Marcinelle” , dove muore a causa del gas “ Grisou” o “ “ Grisù”, Antonio   il marito fedifrago di Donna Rosa che come il prelato vuole mantenere almeno la parvenza di donna onesta e timorata di Dio ma il suo essere anche moglie comprensiva fino all’assurdo ( concede senza batter ciglio  la relazione amorosa tra il marito e la sorella) la porta ad una sconfitta su tutti i fronti. Insieme alla tragedia della miniera belga  c’è la storia di “Peppiniello” il figlio mezzo analfabeta ma  talentuoso nel gioco del calcio  di donna Rosa, simbolo del sud  che alla fine abbandonerà l’Internazionale per tornare alla sua Napoli a vendere gelati per pochi spiccioli. Pozzuoli diventa l’immagine di un’Italia deturpata e violentata dalla guerra appena passata, un momento in cui i valori alzati come la polvere  del fuoco delle bombe deve ancora assestarsi. In questa confusione da sconfitto si muove , marginalmente, anche il sacrestano Vincenzo che non riesce a cantare “L’alleluia” ; zoppo e con una mano sola, è  l’espediente comico della pièce, interpretato da Nicola Pistoia. Donna Filumena,  sorella di Donna Rosa  interpretata dall’unica napoletana della compagnia Sandra Caruso è la vittima di questo caos, vittima della sua passione ormonale,  lei è lo scandalo che si vuole evitare, aspetta un figlio dal marito di sua sorella o almeno così si crede fino alla fine. Vittima del sotterfugio di Don Ciro è Don Eduardo interpretato da Diego Guenci  anche lui marito traditore ammaliato dalle grazie di Donna Filumena. Per evitare l’immoralità  i due nascituri vengono attribuiti a Donna Rosa e sarà lei a sopportare il peso dello scandalo perché come finiscono quasi sempre le storie d’amore e di tradimento napoletane, il figlio di donna Filumena è “nero”  e sarà chiamato proprio Grisù. Finisce bene la storia: Donna Rosa perdona in qualche modo la sorella, Don Ciro aspetta il suo nuovo sacrestano perchè Vincenzo è diventato prete, Don Eduardo padrino di Grisù baderà economicamente al suo sostentamento e Donna Filumena ha mantenuto la sua immagine di donna casta e pura. Un finale che di lieto ha solo la parvenza, dentro brucia di parole amare e consapevolezze nascoste ma in fondo brilla una luce di speranza perché non si parla dei tempi moderni ma degli anni 50 ,quando era ancora permesso che dal  matrimonio tra  delusioni e  sogni nascesse la speranza.